
“La parola ‘persona’ deriva dalla parola latina ‘persona’ che si riferiva alle maschere indossate dagli attori in cui il suono passava. La “persona” è la maschera, il ruolo che stai interpretando. E tutti i tuoi amici, parenti e insegnanti sono impegnati a dirti chi sei e qual è il tuo ruolo nella vita.” (Alan Watts)
Tutti noi abbiamo una storia su chi siamo.
Questa storia è complessa e stratificata.
Comprende alcuni fatti oggettivi, come nome, età, sesso, background culturale, stato civile, occupazione e comprende anche descrizioni dei ruoli che ricopriamo, delle relazioni, dei punti di forza e di debolezza, ciò che ci piace e ciò che non ci piace, le nostre speranze, i nostri sogni, le nostre aspirazioni.
Se ci aggrappiamo a lei con leggerezza questa storia può darci il senso di noi stessi.
Senso che ci aiuta a definire chi siamo e ciò che vogliamo nella nostra vita.
Se invece ci fondiamo con questa storia, se cominciamo a pensare che noi siamo la storia, questo crea subito ogni genere di problema.

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In psicologia questa storia viene definita sé concettualizzato o anche sé come funzione, perché è sostanzialmente di questo che si tratta, un modo in cui noi descriviamo noi stessi e, soprattutto, uno soltanto dei tanti modi possibili.
ATTORI E PERSONAGGI
Ognuno di noi nella vita sociale è attore e personaggio.
Secondo Erving Goffman, ormai riconosciuto come una delle figure più rilevanti della sociologia contemporanea, la vita sociale può essere paragonata a una rappresentazione teatrale.
In tale rappresentazione la messa in scena viene realizzata da gruppi che collaborano come vere e proprie compagni teatrali all’interno di uno spezio scenico condiviso.
Questo spazio scenico può essere suddiviso in “ribalta” e “retroscena”.
La posta in gioco di tale messa in scena teatrale nella vita di ogni giorno e l’idea che gli altri hanno di noi.
Ci impegniamo costantemente nella gestione delle impressioni che gli altri hanno di noi.
IL COPIONE E L’IDEA CHE ABBIAMO DI NOI STESSI
Spesso tendiamo a pensare che il personaggio che stiamo rappresentando sulla ribalta sociale coincida con quello che siamo. Con il nostro io.
E ignoriamo il “retroscena”, dove il personaggio che stiamo rappresentando è stato, invece, costruito.
Infatti, in realtà, come il teatro ci mostra, l’identità del nostro personaggio è il risultato della nostra rappresentazione, non la causa.
Vale a dire che siamo così perchè ci rappresentiamo così. Non ci rappresentiamo così perchè siamo così.
Vogliamo lasciare agli altri una certa impressione e agiamo dei comportamenti per lasciarla.
Questo è possibile perchè siamo in grado di controllare i nostri comportamenti e di scegliere in ogni momento come agire, anche in contrapposizione con le emozioni, i sentimenti e ogni tipo di esperienza interna che stiamo vivendo in quell’esatto momento.
Ad esempio, se ci presentiamo per un colloquio di lavoro, cercheremo di dare un’impressione di competenza, affidabilità, serietà e cercheremo di comportarci, di parlare, di muoverci, in modo calmo e tranquillo, anche se invece siamo molto in ansia e preoccupati per la riuscita del nostro colloquio.
L’ansia sociale, in fondo, non è che questo: il timore di dare agli altri un’impressione di noi che non vogliamo dare. O meglio, di non riuscire a dare agli altri l’impressione di noi che vorremmo dare.
Questa interazione con gli altri, che nello stesso tempo sono per noi pubblico e attori, funziona in maniera retroattiva.
Ogni volta che andiamo in scena, infatti, l’impressione che lasciamo di noi agli altri ci ritorna indietro, in un gioco di specchi.
Attraverso quell’impressione noi vediamo gli altri come ci vedono. E a volte quello che vediamo ci piace. A volte no.
Per cambiare e diventare una persona che ci piace essere, è importante partire proprio da qui.
Prima di tutto, rendendoci conto che quello che ci definisce nella relazione con gli altri sono le nostre azioni, quelle azioni che mettiamo in atto consapevolmente o meno consapevolmente sulla scena sociale. La nostra messa in scena. La parte che scegliamo di recitare.
Come scrive Park:
Probabilmente non è un caso che la parola “persona” nel suo significato originale, volesse dire maschera. Questo implica il riconoscimento del fatto che ognuno sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte… E’ in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri; è in questi ruoli che conosciamo noi stessi.
In un certo senso, e in quanto questa maschera rappresenta il concetto che ci siamo fatti di noi stessi – il ruolo rappresenta il nostro vero “io”, l’”io che vorremmo essere. Alla fine la concezione del nostro ruolo diventa una seconda natura e parte integrante della nostra personalità. Entriamo nel mondo come individui, acquistiamo un carattere e diventiamo persone.
Robert Ezra Park, Race and Culture, Glencoe, Ill., Free Press, 1950
Per piacere di più a noi stessi, dobbiamo prendere consapevolezza della parte che recitiamo e valutare se quella parte ci piace o non ci piace.
Se è quello il personaggio che vogliamo mettere in scena, la persona che vogliamo essere, o se stiamo soltanto recitando una parte, un copione che ci è stato assegnato, che neanche ci piace.
Molto spesso, infatti, cadiamo nell’errore di confondere la parte che recitiamo con quello che siamo.
Solo perchè recitiamo quella parte da quando eravamo molto piccoli e non ci siamo mai resi conto che, in realtà, era una parte che qualcuno ci ha assegnato, non quello che siamo veramente.
Cambiare e cominciare a rispettarci e a piacersi di più è, dunque, prima di tutto individuare il nostro copione ed eventualmente scegliere di cambiarlo.
Proprio come un attore o un attrice che, prima di accettare una parte, sceglie di leggerla e di valutare se se la sente.
Solo che qui non c’è in gioco soltanto la buona riuscita di uno spettacolo teatrale o una carriera da attore.
C’è in gioco la nostra vita.
E il modo in cui vogliamo viverla.
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